REPUBBLICA ITALIANA
In nome del popolo italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione Sesta Penale
in persona dei signori magistrati: Dr. Francesco ROMANO - Presidente; Dr. Giovanni DE ROBERTO - Consigliere; Dr. Adolfo DI VIRGINIO - Consigliere; Dr. Stefano MONACI - Consigliere; Dr. Giovanni CONTI - Consigliere;
ha pronunziato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli avverso l'ordinanza collegiale, in data 11 dicembre 2000, del Tribunale del riesame di Napoli, concernente l'indagato V.S..
Sentita la relazione del Consigliere dr. Stefano Monaci,
sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. Antonio Frasso, che ha concluso per l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata,
sentito per l'imputato il difensore Avv. Cerruti del Foro di Napoli,
Fatto e diritto
1. - Il 24 novembre 2000 il GIP del Tribunale di Napoli ha emesso una lunga ordinanza nei confronti di quaranta persone coinvolte in vario modo in attività illecite svolte nella medesima area geografica, quella dei comuni confinanti di Casoria, Afragola, Arzano, Cardito, Caivano, Crispano, Frattamaggiore, e dintorni.
Il GIP assoggettava alla misura della custodia cautelare in carcere, tra gli altri, l'indagato V. S., accusato del delitto di estorsione commesso in danno di G. e S. M..
Con ordinanza dell'11 dicembre 2000 il Tribunale del riesame di Napoli annullava l'ordinanza impositiva della misura cautelare nei confronti del V. per carenza del requisito dei gravi indizi di colpevolezza, e ne ordinava la scarcerazione se non detenuto per altra causa.
Propone ricorso per Cassazione la Procura della Repubblica di Napoli chiedendo l'annullamento dell'ordinanza.
2. - L'indagato V. S. è accusato di concorso nel delitto di estorsione ai danni di M. G. e M. S.; come si legge all'inizio dell'ordinanza impugnata, gli viene addebitato in particolare “di avere chiesto ed ottenuto da costoro, titolari di depositi all'ingrosso di prodotti alimentari, la somma di 20 milioni prospettando conseguenze pregiudizievoli alla loro incolumità personale ed alla loro attività qualora non avessero aderito alla richiesta formulata in nome di F. M., noto esponente di un gruppo criminale operante nella zona.”
Gli elementi indiziari addotti dal Pubblico Ministero a sostegno della richiesta di misure cautelari sono costituite innanzi tutto da dichiarazioni rilasciate oralmente dalle parti offese.
In realtà i fratelli M., pur ammettendo di avere intrattenuto rapporti commerciali con il V., avevano negato di aver mai ricevuto richieste di carattere estorsivo e di avere corrisposto all'indagato somme di denaro a beneficio di appartenenti ad organizzazioni criminali; solamente nel corso di colloqui informali hanno ammesso di avere versato in varie occasioni “rate” per un importo complessivo di 20 milioni consegnandoli appunto all'indagato, ma si sono rifiutati di verbalizzare queste loro dichiarazioni.
I Carabinieri provvedevano però a registrare su nastro, a loro insaputa e separatamente per ciascuno di essi, le dichiarazioni dei due fratelli M., quelle appunto in cui riferivano le estorsioni subite dal V. per conto del F..
3. - Il Tribunale del riesame ha ritenuto di inquadrare la fattispecie nella previsione dell'art. 203 c.p.p., che regolamenta la posizione degli informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza, stabilendo da un lato che il personale della pubblica sicurezza e dei servizi segreti non possa essere obbligato a rivelare i nomi dei propri informatori, e, dall'altro lato, che le informazioni fornite da questi ultimi non possano essere acquisite al processo, o utilizzate in esso, a meno che non vengano esaminati come testimoni.
Un simile inquadramento è frutto di un errore concettuale, ed appare non corretto già in prospettazione.
L'art. 203 non è applicabile ai fratelli M. per la semplice ragione che in realtà non sono informatori di polizia.
Per comprendere l'effettiva portata dell'istituto occorre esaminarlo alla luce delle sue ragioni logiche e storiche.
Appare significativo che la norma si riferisca non solo agli informatori di polizia, ma anche (e forse soprattutto) a quelli dei servizi segreti; l'informatore di cui all'art. 203 è, in realtà, il confidente della polizia o dei servizi, che fornisce loro occasionalmente, ma con sistematicità, notizie riservate; si tratta spesso di un infiltrato all'interno di ambienti malavitosi (anche se non pentito né dissociato) e nella normalità dei casi agisce in vista di ricompense in denaro, o di altri vantaggi, vale a dire di una controprestazione.
È ben nota l'importanza che i confidenti, e le loro soffiate, hanno rivestito praticamente da sempre, e che verosimilmente continuano a rivestire nello svolgimento dell'attività di polizia (e non solo di polizia giudiziaria in senso proprio).
Il legislatore ha adottato perciò la scelta di non obbligare gli agenti e ufficiali di polizia giudiziaria, ed il personale dipendente dai servizi, a rivelare i nomi dei propri confidenti per non bruciarli inaridendo per sempre fonti di informazioni considerate utili per l'attività di polizia.
4. - Come è facile rilevare la figura dei fratelli M. è ben diversa: si tratta semplicemente di parti lese (o di pretese parti lese) che rifiutano di formalizzare e sottoscrivere le loro dichiarazioni, allegando sostanzialmente il timore di ritorsioni da parte degli estorsori.
Non forniscono perciò con sistematicità, ancorché occasionalmente, informazioni alla polizia, e, tanto meno, lo fanno in vista di un compenso o di un vantaggio qualsiasi; anzi, se ben si intende quanto riportato negli atti, sarebbero stati ben lieti di non essere sentiti.
Invece i M. hanno riferito notizie alla polizia in un solo caso, e non su circostanze conosciute per caso, circolando in un certo ambiente, ma su fatti che li riguardavano direttamente.
Non si tratta dunque di informatori di polizia ai sensi, e per gli effetti, di cui all'art. 203 c.p.p..
La diversità di fattispecie esclude anche che questa norma possa essere applicata estensivamente a questo caso.
5. - In realtà la polizia giudiziaria stava ricercando sommarie informazioni su fatti che potevano costituire reato, così come espressamente previsto dal primo comma dell'art. 351 c.p.p., a norma del quale “la polizia giudiziaria assume sommarie informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini”.
Nello svolgimento di questo suo compito la polizia giudiziaria ha sentiti oralmente i fratelli M., per questo ha cercato di indurli a riportare per iscritto e sottoscrivere le loro dichiarazioni, e per la stessa ragione ha registrato (prudenzialmente) le dichiarazioni orali raccolte dagli stessi M..
Quella effettuata è dunque, semplicemente, la registrazione di un'attività di polizia giudiziaria.
Come tale costituisce un elemento indiziario, che, proprio per questo, può essere acquisito ed utilizzato nella fase delle indagini preliminari.
Come già rilevato da questo Supremo Collegio (Cass. pen., sez. I, 3 dicembre 1991/23 gennaio 1992, n. 4641, A. ed altri) “le sommarie informazioni di polizia di cui all'art. 351 nuovo c.p.p., quali atti pertinenti alle indagini circa la fondatezza di una determinata notitia criminis, pur provenendo dall'autorità di polizia giudiziaria e pur essendo prive di rilevanza ai fini della decisione finale, costituiscono documentazione dotata di efficacia processuale nell'ambito della fase delle indagini preliminari e, in quanto tali, ben possono essere utilizzate, da sole o insieme agli altri atti compiuti a norma dell'art. 348, secondo comma, lett. c) nuovo codice, per l'emissione di provvedimenti restrittivi della libertà personale.” (nello stesso senso, Cass. pen., Sez. II, 20 febbraio/7 marzo 1991, 1344, P.M. c. A.; Cass. pen., Sez. V, 20 agosto/9 settembre 1991, n. 1811, M. ed altro).
In questo caso le informazioni di polizia sono costituite da dichiarazioni, ancorché non sottoscritte, delle presunte parti lese; non va dimenticato, a questo proposito, che “la dichiarazione resa da persona informata dei fatti, qualora ritenuta attendibile poiché rispondente a dati oggettivi accertati dalla p.g. relativamente a circostanze inerenti il fatto di reato oggetto di indagini, è esattamente qualificata come grave indizio di colpevolezza idoneo a fondare un provvedimento di custodia cautelare, essendo di per sé sufficiente, nella fase delle indagini preliminari, a far ritenere che il reato sussista, e che sia imputabile alla persona indagata.” (Cass. pen., Sez. I, 30 giugno/27 settembre 1993, n. 3106, D.).
6. - Le registrazioni effettuate dalla polizia giudiziaria all'insaputa degli interlocutori fratelli M. non sono soggette, infine, alle particolari cautele e garanzie previste dagli artt. 266 e seguenti c.p.p., proprio perché si tratta di una registrazione, effettuata da parte di uno degli interlocutori, di una conversazione tra presenti.
Proprio per questo, come giustamente sottolinea nel proprio ricorso la Procura di Napoli, in questo caso viene meno qualsiasi esigenza di tutela della riservatezza; ogni interlocutore (indipendentemente dal fatto che possa rivestire, o meno, anche la qualità di pubblico ufficiale) è parte della conversazione e può disporre del suo contenuto.
Soprattutto, ogni interlocutore diviene un potenziale testimone che può lecitamente memorizzare quanto è stato dedotto, sia prendendo appunti, sia avvalendosi di mezzi tecnici moderni come appunto un registratore.
7. - Concludendo, deve dunque essere formulato in proposito il seguente principio di diritto:
“Gli informatori della polizia o dei servizi segreti sono i confidenti della polizia o dei servizi, che - di regola dietro compensi in denaro o in vista di altri vantaggi - forniscono loro occasionalmente, ma con sistematicità, notizie riservate.
Non rientra in questa figura, né può essere ad essa assimilata, la persona informata dei fatti che rifiuti di formalizzare le sue dichiarazioni e di sottoscrivere un verbale, e cui pertanto non sono applicabili le disposizioni contenute nel predetto art. 203 c.p.p..”
L'ordinanza impugnata dalla Procura di Napoli appare errata nella sua impostazione e per i criteri di valutazione adottati.
Come tale non può che essere annullata, con rinvio degli atti allo stesso Tribunale di Napoli che dovrà riesaminare il caso alla luce del principio di diritto sopra enucleato e, più ampiamente, dei criteri esposti nella motivazione di questa sentenza.
P.Q.M.
Annulla l'impugnata ordinanza e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Napoli.
Così deciso in Roma il 12 giugno 2001.
Il Presidente (dr. Francesco Romano)
Il Consigliere estensore (dr. Stefano Monaci)
Depositata in Cancelleria il 10 ottobre 2001.
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